Abbasso la noia

Roberto Beccantini22 marzo 2013

Ci sono amichevoli per le quali mi sarei preso a pugni e ce ne sono altre, come Brasile-Italia di Ginevra, per le quali manderei al diavolo gli infedeli. Il calcio, chez nous, è così fazioso e rissoso che le partite della Nazionale vengono lette e tradotte in base al (ri)sentimento popolare. La Nazionale è sempre figlia di nessuno, salvo quando vince il Mondiale o sfiora l’Europeo: improvvisamente, diventa di tutti. E se non proprio di tutti, di quei tifosi la cui squadra ha fatto da mamma.

Da 0-2 a 2-2: il risultato non racconta il molto dell’Italia e il poco del Brasile; di un’Italia, cioè, che è sembrata il Brasile, per la facilità con cui arrivava in porta e poi la sbatteva, e di un Brasile che pareva l’Italia d’antan, tutta barricate e contropiede. Morale della favola: noi, padroni; loro, camerieri a rincorrere posate e portate.

Scolari è appena arrivato, e si vede. Prandelli lavora dal 2010, e si nota pure questo. Non ho capito Giaccherini trequartista, per il ct migliore in campo. Siamo passati dal 4-3-1-2 al 4-3-3, con Pirlo eravamo sotto, senza Pirlo abbiamo rimontato, anche se già nel primo tempo avremmo meritato ben altro scarto.

Pedaliamo in gruppo, dietro la Spagna. Credo che l’ultimo balzo sia nei piedi e nella testa di Mario Balotelli. Il suo tritolo ricorda Gigi Riva. E mi fermo qui, perché non vorrei che il paragone sembrasse irriverente. Mario ha 22 anni, i suoi impatti sono diventati devastanti. La speranza è che, come spesso ha fatto, non ci molli sul più bello.

E’ una Nazionale, la nostra, che trasloca, con estrema facilità, dal pareggio fortunoso di Amsterdam al tiro a segno di Ginevra. Non mi sono dispiaciuti De Sciglio e Cerci, mi aspettavo di più da Osvaldo (ma anche da Neymar, Hernanes e Hulk). Adesso che ci penso, ho passato dei giovedì sera ben più noiosi.

Ciao, Pietro

Roberto Beccantini21 marzo 2013

La notizia della morte di Pietro Paolo Mennea attraversa il primo giorno di primavera con la forza vigliacca della pugnalata alla schiena. Aveva 60 anni. Era stato l’atletica leggera italiana, «leggera» per modo di dire, visto il modo maniacale con il quale l’aveva aggredita. Credo che la sua filosofia poco si discostasse dal catechismo di Marco Pantani, così veloce in salita (e lui, in pista) per accorciare la tortura.

Uomo di Barletta – e, dunque, del Sud – l’ho conosciuto e frequentato ai Giochi Olimpici, su tutti l’edizione di Mosca, nel 1980, dalla quale estrasse l’oro dei duecento metri. Non sprecava un aggettivo, così come, sul tartan, non sciupava un metro. Fondamentale fu l’incontro con il professor Carlo Vittori. Insieme, riscrissero lo sprint. Li ricordo reclusi a Formia, sotto un sole feroce, singolare coppia di Oscar Wilde a rovescio: capaci, cioè, di cedere a tutto tranne che alle tentazioni, doping compreso.

L’avevo perso di vista, era un fachiro, un solitario: e come tale se n’è andato. L’ha portato via un male incurabile, che la famiglia aveva tenuto nascosto alla morbosità del sentimento popolare. Scrivo di getto, assalito da tanti ricordi, da tanti rimorsi.

Pietro è stato un anti-italiano, termine di cui si abusa ma che nel suo ascetismo manifesto, e per la sua carriera, calza a pennello. Se Livio Berruti aveva incarnato il talento, lo stile, l’eleganza, con quel volo di colombi a scortarlo leggero al traguardo di Roma, Pietro è stato il volli-fortissimamente-volli di un ragazzo dal fisico sghembo, quasi banale, deciso a prendersi la vita attraverso lo sport, e non viceversa.

In questi casi, si rischia di cadere nel patetico. E allora mi fermo, come mi avresti consigliato tu.

Da squadra matura

Roberto Beccantini16 marzo 2013

Il Bologna di Stefano Pioli veniva da tre vittorie. Le aveva costruite attraverso il gioco, non sugli episodi. Gilardino ha avuto l’occasione per sabotare il pronostico, Buffon gliel’ha negata. La partita è così rientrata nell’alveo della trama che più o meno mi aspettavo. Ha vinto di squadra, la Juventus. Soffrendo quando doveva. Colpendo quando serviva.

L’effetto Bayern e l’aritmetica tengono in vita un campionato che la squadra di Conte ha saldamente in pugno: un po’ per come gioca, quando gioca, e un po’ per come (non) giocano gli avversari. In chiave europea sarà tutta un’altra musica, dal momento che i Ribery e i Muller sono squali, non pesciolini da Luna park: penso alle palle perse sulla tre quarti a Bologna e in altre circostanze, al modo in cui le avrebbero aggredite, divorate.

Primo gol: Marchisio-Vucinic. Secondo gol: Vucinic-Marchisio. «Dai e vai», tipo basket. Da Lichtsteiner-Asamoah a Padoin-Peluso (ripeto: Padoin-Peluso) le differenze sono state contenute. Vucinic ha evitato la fucilazione per quello che poi ha fatto, Giovinco non la eviterà neppure per quello che ha tentato di fare, è la dura legge dell’attaccante. Quando diventa «generoso», significa che qualcosa non funziona.

Non mi è piaciuto Bergonzi, troppo «patteggiatore»: mancano un paio di gialli (a Pirlo, a Chiellini); manca, soprattutto, il rosso a Perez, dopo un’ora.

Il Bayern ha già vinto il titolo, la Juventus non ancora. Il mio pronostico è: Bayern 55, Juventus 45. Devo ripetermi: la manovra è di respiro europeo, centrocampo in testa, alcune rotelle no, in particolare fra le punte. I tedeschi sono stati finalisti di Champions nel 2010 e 2012, Heynckes può alternare Ribery e Robben, beato lui. Vive di strappi feroci, il Bayern, ma anche di singolari black-out.

Spero che il piacere di guardarsi negli occhi superi la tensione.

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